Il quarto d'ora di ricreazione era avvertito come una liberazione dello spirito e del corpo. I muscoli volevano sgranchirsi, la mente spaziare sul casuale. La circolazione sanguigna pretendeva che il cuore pompasse più in fretta. Il mio compagno di banco, un bianchisano, stava quietamente degustando un ottimo panino e chiacchierando con un altro bianchisano. Quatto quatto mi avvicinai alle sue spalle e dall’alto di un gradino gli piazzai un gran ceffone tra capo e collo. Dopo di che, contento di me stesso, riportai il panino, che nel corso dell'impresa manesca avevo preso con la sinistra, nella mano destra. La mano destra lo riportò in bocca e addentai un gran boccone, un boccone degno di colui che s'era prodigato in un'alta opera di affermazione sociale. I denti, la lingua e la gola stavano compiendo la dolce opera di deglutire il boccone, allorché mi arrivò proprio in mezzo ai nutriti glutei un calcione ben mirato, l'educativo prodotto di una gamba indubbiamente energica.
Maresca aveva osservato la scena dalla finestra della presidenza posta a piano terra rialzato. Era uscito ed aveva esercitato alta e bassa giustizia secondo il suo stile. Un metodo educativo in uso qualche volta nelle scuole elementari, ma neanche allora al ginnasio e al liceo. Non me ne adontai. Per i ragazzini delle prime classi, Maresca era come se fosse Giove tonante, che manda i fulmini e il bel tempo. Incassata la botta, io e il mio compagno riprendemmo a mordere il panino confezionato con la squisita mortadella dei nostri verdi anni e affettata a fette spesse, a cura della moglie di don Ciccio Napoli - mezza lira cadauno.
Perduta l'enclave Ruga di Portosalvo, spaesato nel rango di studente, confuso fra altri ragazzini che non erano cresciuti con me, il Ginnasio, il fascismo, la patria in armi, il latino, il bidello Congiusta, Omero, i numeri frazionari, il panino con la mortadella, il fischio assordante/attraente di Nicolino col furgoncino, avevano l'identità di un Purgatorio comunemente detto Jeraci, ma che bisognava scrivere Locri. Questo Purgatorio era sovrastato da un Orco, detto Preside, il quale era severo, ligio, autorevole, solo qualche volta conciliante, umano, paterno; un uomo che, come ci venne spiegato, era rimasto solo con i suoi figlioletti per la recente vedovanza: una persona ben piantata sulle gambe, alta, il pizzetto sul mento, il nome ridondante: Umberto Sorace Maresca.
Per quanto mi sforzi di riandare con la memoria ai nomi che ho incontrato nel libri di storia, non ricordo alcun personaggio importante che avesse il nome di Umberto, tranne Umberto Biancamano, che poi non era propriamente italiano, ma un montanaro della Savoja arrivato a Torino e, se non ricordo male, elevato a conte dall'imperatore germanico. In Toscana ci furono (e forse ci sono) gli Uberti, quelli del famoso Farinata, ci fu anche un Uberto degli Uberti, che non mi ricordo chi fosse, forse qualche altra illustre personalità, mai degli Umberti. Il nome Umberto si è diffuso soltanto dopo l'ascesa al trono d'Umberto di Savoia, secondo re d'Italia, assassinato nel 1900 a Monza dall'anarchico Gaetano Bresci. Al tempo in cui Binda e Guerra si contendevano i giri ciclistici di Francia e d'Italia, e l'Inter si chiamava ancora Ambrosiana, incontrare una persona con quel regale nome non era cosa di tutti giorni. Ancora più esotico era quel Maresca del cognome. Maresca, amarena, ciliegia, marmellata. Cirio, Arrigoni. Ancora più spaesante era l'intitolazione del Liceo: Liceo-Ginnasio Ivo Oliveti. A girare tutta la Calabria, uno che si chimi Ivo sarebbe tuttora una ricerca vana. In effetti la Locri di Maresca si atteggiava (e in effetti era) il punto di congiunzione della molto periferica provincia calabrese con l'Italia metropolitana, con Piazza Venezia, il Duomo di Milano, le Campane di San Giusto e l'Enciclopedia Treccani. Era un prezzo da pagare in termini umani affinché divenissimo italiani: la rinunzia alle gare di equilibrio sul muretto della ferrovia, al gioco della singa, alla nostra identità originaria, a come ci aveva disegnati il natio borgo selvaggio.
Riflettiamo: il re d'Italia, asceso a Imperatore d'Etiopia, e il Duce, uomo del destino, sono una cosa, l'Italia che transita verso la modernità, mandando la larga massa dei suoi ragazzi a scuola, un'altra. Bisogna raccontare le cose per come stanno. Dopo la Prima guerra mondiale, lo Stato italiano era necessario, quasi inevitabile, diventasse la Nazione italiana; quella di cui, sessant'anni prima, Massimo d'Azeglio aveva stigmatizzato l'assenza: "L'Italia è fatta, adesso bisogna fare gli italiani". La Destra cavouriana non si era neppure messa all'opera, la Sinistra di Depretis aveva aggirato il problema con il Trasformismo parlamentare, Giolitti aveva impiegato le rimesse degli emigrati per innalzare il Triangolo industriale governando il Sud con il notabilato e i mazzieri; tutti i governi avevano adescato la mafia per tenere buoni i contadini, a cui il nuovo Regno aveva rubato i demani comunali e il diritto di pascolare e far legna da ardere. Durante la guerra la riforma agraria era stata promessa e ripromessa in cambio del sacrificio della vita. Finita la guerra, mantenere la promessa sarebbe equivalso a rinunziare al rilancio dell'industria di pace.
L'ipotesi era inaccettabile. L'Italia sarebbe sparita dal novero delle nazioni civili. Ma come normalizzare il Sud? Come realizzare uno suo sviluppo nazionalitario senza prima consentire la sua transizione all'industria? A quel punto dell'evoluzione del sistema di mercato, Mussolini non poteva controllare le aspettative contadine avvalendosi del padronato fondiario e della mafia, come avevano fatto i suoi predecessori. La guerra aveva piegato i baroni e li aveva sospinti sul viale del tramonto. La stessa massoneria meridionale si era ridotta a un cenacolo di vecchi impotenti e sdentati. Il potere dell'antica classe dei redditieri non superava più i muri del locale circolo di società - cosa narrata in molti romanzi e rappresentata in decine di film. L'agricoltura meridionale, bloccata a produrre grano, non traeva alcun beneficio dall'espansione demografica e dalla crescita dei consumi nelle città industriali. Milano e Torino non erano la Francia. Da parecchio era finito il tempo della grande esportazione mondiale di vino, di olio, di conserve alimentari. La classe media delle professioni e degli impieghi, che aveva pagato con la vita, le mutilazioni, il degrado di anni in trincea, per l'integrità territoriale della Padana e per la velleità milanese della Grande Nazione, ora, dimentica di sé e della sua appartenenza culturale e morale, invece di chiedere un compenso per il Meridione, come sarebbe stato giusto e corretto, invocò proprio l'opposto: d'essere assimilata all'Italia dominante.
Fu così che Mussolini poté ottenere la quadratura del cerchio. Benedetto Croce, Giustino Fortunato, Oriani, Gabriele d'Annunzio, nel bene o nel male, avevano fatto lievitare la nuova aspirazione di tipo idealistico o forse pseudoromantico, che aveva sotterrato lo storicismo napoletano, e persino il positivismo giuridico e medico che gli era succeduto durante gli ultimi decenni del XIX secolo. Giovanni Gentile, divenuto ministro della pubblica istruzione, fu l'artefice dell'impostazione dell'ideologia nazionale. Il passaggio centrale della riforma Gentile fu l'omologazione della cultura meridionale alla romanità e più che altro al Rinascimento, cioè l'omologazione dell'intellettualità meridionale alla storia culturale pan-toscana. Maresca fu un convinto paladino della toscopadanizzazione del Sud. Una persona perbene, un buon preside, anche se uomo di parte e certamente un campanilista. Un inneggiatore dell'odiosa Ara pacis e della resa dell'antica Locri a Roma schiavista. (La caduta morale della piccola borghesia sarebbe avvenuta molti decenni dopo, lui morto da tempo, con il democratico voto di scambio, il nuovo sistema adottato dalla Padana per irreggimentare il Sud.)
I libri scolastici, i professori, il cinema, le canzoni (Siamo un popolo d'eroi, son Renati i figli tuoi... Dangala a me biondina, dangala me, biondà...), i discorsi del Duce, le adunate promosse dal preside Maresca, i suoi discorsi nella sala a scalinate del Cinema Impero, rivolti a chissà chi, non certo a noi ragazzi, che neppure li ascoltavamo, ci volevano (e ci hanno fatti) italiani.
Locri era la capitale del circondario. Il Liceo-Ginnasio Ivo Oliveti era il forum di due o trecento ragazzi e giovanotti con speranze dottorali provenienti dai trenta o quaranta paesini, da Stilo a Brancaleone. C'erano due treni degli studenti, uno proveniente da sud e uno proveniente da nord. D'inverno sfornavano corpi di ragazzini intirizziti dal freddo, d'estate corpi assonnati di ragazzi madidi di sudore.
Le ragazze di regola non viaggiavano. Stavano in pensione presso le suore o una famiglia del luogo. I ragazzi venivano da paesi lontani, ore di biroccio, più ore il treno. E c'erano anche, anzi c'erano soprattutto, le biciclette. Erano pedalate di ore, da Roccella, da Gioiosa Superiore, da Grotteria, da Bovalino, da Benestare, da Sant'Ilario, da Gerace. Noi di Siderno eravamo i più fortunati e anche i più numerosi. I due primi anni di Ginnasio viaggiai in carrozza con altri ragazzi e due studentesse liceali - due 'signorine', in un tempo in cui il tu si dava all'altro sesso soltanto in età infantile.
Ci portava Zagaré con il suo vecchio landò, tirato da un vecchio cavallo. Portare era, poi, il più delle volte un modo di dire, perché di regola era un correre accanto alla carrozza in quotidiane gare a chi era più veloce, e a fare a cazzotti e a sassate con i ragazzi della pluiricasse della Basilea che al nostro apparire prendevano a urlare: vavalaciari. La Juventus di Siderno gareggiava con la Fortitudo di Locri. Il portiere Minniti subì l'infamante accusa d'essersi venduto, Pietro Gratteri, passato al Siderno Serie C, quella di traditore, la professoressa di Ginnastica fu causa di una rissa perché uno dei Carnuccio le rimproverò di portare le mutandine azzurre (la maglia del Siderno). I terzaliceali sidernari reagirono. Capuleti e Montecchi se le suonarono di santa ragione. Intervennero i carabinieri che usarono le bandoliere come sfollagente.
La carrozza di Zacaré entrava a Locri per la Strada del tribunale. Altre vie d'accesso allora non c'erano. L'edificio a tre piani, imponente per quel tempo, con le sue grandi vetrate che riflettevano i raggi del sole, mi suggeriva l'idea di una maestà urbanistica di cui Siderno non godeva. Locri era più fascista di Siderno - cosa assolutamente normale, in quanto c'erano i comandi dei carabinieri e delle guardie di finanza, il tribunale e gli uffici fiscali - e quindi più italiana. Essendo più italiana, era anche più fascista. O se vi piace di più, l'inverso. In effetti le cose restano le stesse. Il problema è un altro: il compito che lo Stato, teso a diventare Nazione, assegnava alla borghesia locale. Sappiamo dal bel saggio di Salvatore Futia sulle Officine Meccaniche Calabresi, che Michele Bianchi, quadrunviro mussoliniano, le aveva aiutate a nascere. Ma
le Officine non ebbero lunga vita. La Grande Crisi sopravvenuta impose a Mussolini dure scelte. Furono nazionalizzate e messe in salvo le grandi banche e le grandi industrie di Milano, Genova, Torino e Trieste. Al Sud i fallimenti non si contarono. Affondò la Banca di Gerace, le rimesse degli emigrati lì depositate andarono perdute. Affondarono anche le OMC.
A partire dal terzo anno ebbi una bicicletta da grande.
Nelle belle giornate d'inverno e di primavera, una passeggiata mattutina in bicicletta. A sinistra, la scarpata della ferrovia coperta dal verde tenero di un'erba spontanea e già a febbraio da un tappeto violaceo di fiorellini dal gambo grasso e dai cento petali, una varietà di macchia mediterranea oggi completamente estinta (almeno così credo).
Oltre la scarpata, il mare celeste al primo sole, e a tagliare l'orizzonte Capo Bruzzano. A destra gli agrumeti e le vigne, Gerace lontana, battuta in fronte dal sole basso, il Tre Pizzi di Antonimina, l'Aspromente innevato.
Sono passati settant'anni da quel tempo, e il ricordo mi fa sembrare bello persino lo stivale di Maresca.
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