giovedì 12 febbraio 2009

Napolitano, la Costituzione, il Sud

di Nicola ZITARA

Il mio personale rapporto con Napolitano è vecchio di oltre cinquant'anni. E' stato il legame di bandiera tra un militante socialista e un dirigente nazionale del PCI; lui sul podio a insegnare, io in piazza a imparare; lui al centro dell'assemblea, a presiederla, io su una sedia dell'ultima fila a essere presieduto. Adesso lui è sotto i riflettori e di fronte alle telecamere e io dall'altra parte del video, a vedere e a cercare di capire. Gli anni e l'esperienza gli hanno conferito una scioltezza d'eloquio, una sicurezza oratoria e una comunicativa politica che da giovane non aveva. Cioè hanno costruito una personalità nuova o inespressa. Dalla mia parte gli anni hanno portato il senno che mi mancava. Mi sento più esperto, so le cose che le delusioni politiche mi hanno insegnato. Certo da giovane egli si trovava a dover sottostare a dei superiori che gli facevano la pagella, mentre oggi, per il prestigio che si è conquistato in due soli anni, sta più in alto di ogni altro uomo della sinistra. I suoi giudici sono la sua coscienza personale, la sua responsabilità di uomo di Stato, gli italiani che consentono o dissentono, le grandi potenze mondiali a cui l'Italia è collegata. E questo è un gran passo avanti.

L'avversario di Napolitano è Berlusconi. Ma cosa rappresenta l'uno e cosa rappresenta l'altro?

Nei primi anni Novanta, l'Italia, per non essere esclusa dal sistema monetario europeo dei cambi fissi, vigente in Europa, e da quello in preparazione della moneta unica europea (Euro), fu costretta ad adottare alcuni provvedimenti di carattere sociale, negativi per i lavoratori e in genere per le famiglie proletarie. Dovette inoltre procedere a smantellare il sistema delle banche e delle industrie di Stato. Questi provvedimenti, che modificavano profondamente il precedente corso interclassista, il più che trentennale Stato sociale, vennero adottati con il consenso dei sindacati e dei partiti di sinistra. Bisogna aggiungere che il più delle volte la realizzazione della svolta sociale fu affidata proprio a governi diretti da uomini di sinistra.

Con questa delega, che aveva la funzione di fare inghiottire il rospo alle masse, si santificava un negozio politico - un patto tra sinistra e Confindustria - per cui la sinistra restava titolare di eseguire direttamente il contratto o comunque di vigilare sulla sua esecuzione ad opera di altri. In buona sostanza, per la sinistra si trattò d'accettare una svolta a destra - liberale, liberistica, capitalistica, antisindacale - che veniva imposta alla società italiana dalle forze capitalistiche dominanti in USA e in Europa, con il patto tacito, però, che sarebbe stata essa stessa a dirigere o collaborare alla svolta come forza di governo in carica o come forza capace di condizionare e vigilare sul governo in carica, in modo che il passaggio non fosse eccessivamente duro per i lavoratori.

L'ingresso di Berlusconi sulla scena politica italiana va bene interpretato (al di là del temperamento e della morale dell'uomo) come un risveglio delle classi del capitale a realizzare da sé, in modo determinato, convinto e rapido, la restaurazione liberista e antisindacale, scavalcando la mediazione della sinistra.

Le forze del capitale non sono uno strato uniforme del mondo produttivo. Ci sono i piccoli, i grossi, i medi, gli autonomi. Ciascuno di questi strati ha una sua storia, una sua condizione, degli interessi precisi nella geografia del mercato interno e internazionale, dei rapporti diversi con il fisco e la burocrazia statuale. In Italia, la grande industria è stata sempre protetta dallo Stato in modo aperto o sottobanco. Il suo rapporto con il fisco si fonda sulla più ampia autonomia, in quanto essa è in pratica libera di scegliere se dichiarare o non dichiarare in bilancio il profitto o le perdite. Il suo rapporto con la pubblica amministrazione è, poi, di assoluta supremazia. Non così l'impresa media, piccola, autonoma e persino quella medio-grande. Il popolo che Berlusconi ha scelto come base e sostegno della sua ascesa politica va dal pescivendolo che gira di porta in porta a chi dirige una fabbrica con diecimila o ventimila operai. Non pagare le tasse, ottenere libertà di manovrare i prezzi, pagare bassi salari. E' sotto gli occhi di tutti che Berlusconi ha stravinto. In corso d'opera, si sono schierati con lui vecchi e meno vecchi esponenti del consociativismo che hanno intravisto nella nuova formazione partitica una rapida possibilità di ascesa. In sostanza Berlusconi è riuscito a unificare sotto il suo simbolo partitico la parte commerciale della borghesia nazionale e molti detriti della patitocrazia. Lo ha fatto su una linea arretrata, ma è riuscito in un'impresa che ha due soli precedenti, il trasformismo di Depretis e il fascismo. Qualche sporadica resistenza si è avuta da parte della Fiat e delle altre industrie super avvantaggiate del Piemonte e dell'Emilia. Il Sud ha ceduto su tutta la linea. Lo stesso autonomismo o federalismo siciliano di Raffaele Lombardo è un cedimento di fatto alla linea antioperaia di Berlusconi, che nessun meridionalismo a parole può nascondere.

Il congiunto operare dello spiazzamento sociale a sinistra e dell'aggressività padronale ha ridotto il popolo lavoratore in mutande. E molto spesso anche senza quelle. Sans culottes. Al contrario il popolo delle partite IVA gongola.

Conseguentemente la sinistra si trova a difendere le scelte liberiste ai danni delle masse e contemporaneamente a invocare il consenso di queste masse non più sul piano sociale ma, miserevolmente, sul piano costituzionale, o meglio su un piano anteriore alla Costituzione del 1948 e del tutto settecentesco, qual è la divisione della sovranità nazionale in tre poteri distinti e indipendenti. Ma quando le masse hanno la pancia vuota, la democrazia (cioè il patto di convivenza tra datori di lavoro e lavoratori) rischia d'essere dimenticata, come avvenne tra 1922 e gli anni del disastro concatenati della guerra e della guerra civile. Nell'attuale situazione socio-politica di forte egemonia padronale, la funzione codina, elettoralistica, votocratica e clientelare della sinistra in Meridione non ha più alcuna prospettiva, tanto più che quelle frazioni toscopadane del proletariato che riescono ancora a pagare le bollette sono divenute scioviniste e parteggiano per lo stronzobossismo. C'è del tutto una corrente politica della sinistra toscopadana che immagina un proprio partito in competizione stronzobossistica con la Lega.

Napolitano è assurto a leader della resistenza democratica, costituzionale, europeista. La difesa di questi valori è importante, forse vitale, per la formazione sociale toscopadana, ma non serve a noi. Non serve perché non serve una Costituzione che è rimasta deliberatamente inapplicata nella norma che contempla il diritto al lavoro (art. 4), una norma fondamentale per noi, essendo il lavoro la base della convivenza civile in una società in cui ormai si vive di soli scambi di mercato e non più di autosostentamento. Se la tutela del lavoro è assicurata soltanto nei luoghi in cui la domanda è spontanea, il patto costituzionale d'unità nazionale è cancellato alla radice. I voli pindarici dei nostri intellettuali liberal-democratici sono la palla di piombo al piede che inabissa il proletariato meridionale. L'illusione che la nazione giacobina sabauda fascista resistenziale, cara all'intellighenzia napoletana, siciliana e in genere meridionale (Croce ci ha descritto i Savoia come i soli possibili salvatori del Mezzogiorno) possa bastare come base alla civile convivenza equivale a una castrazione dell'intelligenza e al rifiuto di ascoltare la storia; degrada l'idea di nazione a una truffa. Cercare qui il consenso in modi più o meno corretti con lo scopo reale di sostenere lo sviluppo altrove - come si va facendo sin dal tempo di Turati - lascia aggrovigliato il nodo più vistoso del contesto unitario.

La democrazia meridionale (cioè l'incontro tra capitale e lavoro) può essere interna al Meridione. L'ipotesi che debba essere esterna è fallita molte volte nel corso di centocinquant'anni di unità. Il ritorno al quadro di un'Italia divisa in più Stati rientra e collima con il sistema europeo. La recente separazione tra Ceki e Slovacchi ha giovato a entrambi i paesi e s'inquadra benissimo nel processo di unificazione europea.

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