venerdì 29 maggio 2009

E' GIA' TEMPO DI COSRUIRE LA FLOTTA

Ricevo e pubblico da

Nicola Zitara


Nei rapporti commerciali, politici e culturali di uno Stato con l'estero non sempre esiste coincidenza d'interessi tra lo Stato e le singole regioni dello stesso. Ciò è particolarmente vero per il Mezzogiorno d'Italia. A riguardo occorre notare che con l'unità politica del 1861 tutte le relazione estere che il Regno delle Due Sicilie (cioè il paese meridionale) intratteneva furono cancellate. La cancellazione mortificò e negò alla radice anche gli interessi sottostanti. Al Mezzogiorno vennero interposti interessi non sempre suoi. La nuova classe al governo orientò le sue decisioni sulla base dalla domanda padana. Il Mezzogiorno si trovò trascinato a condividere la politica commerciale adottata da Cavour nella fase del Regno di Sardegna, la quale privilegiava gli scambi con la Francia (confinante con il Piemonte). In una fase in cui mancava ancora in Italia una industria moderna e la domanda di manufatti era soddisfatta con le importazioni dall'estero, la posizione frontaliera di Piemonte, Liguria e Lombardia portò alla concentrazione in queste regioni dei grandi distributori nazionali di manufatti esteri. Il crollo dei capitalisti meridionali fu altissimo, e altissimo fu l'interfacciale profitto dei capitalisti padani, tanto che s'ingenerò la favola di un Nord industrializzato, mentre in realtà si trattava soltanto di un capitalismo commerciale privilegiato dalla localizzazione sulla frontiera centroeuropea del nuovo Stato.

La sommatoria unitaria tra regioni propriamente continentali (la Padana) e regioni mediterranee, nonché la posizione dominante assunta dalle prime, è una delle cause profonde e meno note del disastro meridionale. Ieri come oggi la vicenda commerciale e le relazioni economiche con l'estero sono fondamentali per la storia di tutti i paesi. Prendiamo il caso di due grandi Repubbliche marinare italiane: Genova e Venezia, nei fatti due imperi economici. Entrambe decaddero in seguito all'inaugurazione di una rotta marittima verso l'Oriente, con la circumnavigazione dell'Africa, e con la scoperta dell'America. Merci rare e costose che, trasportate da carovane di cammelli attraverso le montagne e i deserti orientali, presero ad arrivare in Europa in grande quantità e a prezzi accettabili a un pubblico più numeroso di consumatori. Emersero le grandi potenze navali dell'Oceano Atlantico, l'Olanda, il Portogallo, la Spagna, la Francia, l'Inghilterra. Per i suoi rifornimenti l'Italia, da paese privilegiato, divenne un paese dipendente. Bisognò inaugurare nuove rotte d'alto mare e nuove rotte sotto costa. Sul finire del '600, i mercanti inglesi s'impiantarono a Livorno rifondando la fisionomia economica del luogo. A sua volta i livornesi svilupparono una rete d'intensi traffici intorno alla Penisola. L'attività della mercatura livornese ha grande rilevanza per la penetrazione di manufatti inglesi in Italia, specialmente nel Sud, e per l'adozione di consumi moderni. L'egemonia livornese si protrasse per tutto il Settecento e solo nella prima metà dell'Ottocento Napoli riuscì a mettere in piedi una sua marina competitiva, che praticò le coste del Sud ben oltre l'unità, integrando le produzioni di province fra loro lontane, e che si spense soltanto sulla soglia della Prima Guerra Mondiale.

Le ferrovie polarizzate su Milano, su Torino, sul Brennero hanno stravolto l'economia e la vita del Sud. Da centro del mondo ancora al tempo di Federico II, il Sud è passato a essere un lembo marginale, superfluo dell'Europa. Ma mentre noi piangiamo sulla nostra infelice vicenda collettiva, le rotte del commercio mondiale non sono più quelle di vent'anni fa. Ben prima di noi ne hanno preso coscienza le popolazioni padane, le quali si aggrappano sempre più pervicacemente all'economa del Centro Europa per non perire anch'esse di marginalità storica. Ma l'Europa non può più sopravvivere come un'area economica chiusa o quasi chiusa in se stessa. L'indipendenza dell'Egitto, l'allargamento del Canale di Suez, lo sviluppo economico dell'Asia stanno rimettendo in gioco le rotte del commercio mondiale. Senza questi fatti il successo del porto di Gioia Tauro sarebbe inspiegabile. Ma Gioia non può restare un gioiello solitario.

Il nostro sussiego di uomini bianchi ci indice a immaginare l'Africa settentrionale come un luogo abitato dagli ascari della Domenica del Corriere, truppe cammellate in divisa bianca, fez rosso e piedi nudi che combattono sotto il generale Graziani a fianco delle nostre truppe. A cinquant'anni dalla decolonizzione, dall'altra parte delle coste europee ci sono oggi importanti nazioni moderne, alcune delle quali hanno già imboccato la via dello sviluppo economico e dell'istruzione obbligatoria. Questi paesi hanno rapporti lontani, confinari con il resto del mondo. A essi, come al Sud italiano le rotte d'alto mare non bastano a integrare e sviluppare le economie interne. In verità queste rotte lontane non sono mai granché esaltanti. Nel secolo XVIII le rotte atlantiche non avrebbero giovato molto all'America del Nord se non si fosse sviluppata a fianco una rotta tutta americana con le Antille e l'America centrale per lo smercio di grano, di farina e di manufatti. Nell'Ottocento la rete ferroviaria messa in piedi nei vari paesi europei, compresa l'Italia toscopadana, sviluppò non tanto gli scambi internazionali quanto gli scambi interni, regionali e locali. Il progresso materiale fu grandioso. Al Sud, data la natura del territorio le ferrovie non prestavano a scambi facili e costosi. Ferdinando II spese una cifra colossale in porti, cantieri, navi per animare gli scambi. Le nostre amate Marine joniche non sarebbero nate senza quei traffici. Il veliero - una sorta di venditore ambulante sul mare - calata l'ancora in rada, sbarcava e imbarcava prodotti agricoli freschi e trasformati, e manufatti. Il naviglio più grande trasportava merci destinate al rifornimento delle due capitali, dei grossi centri urbani e per l'esportazione. I maggiori importatori ed esportatori avevano le loro aziende nelle città portuali e dovunque esistesse uno scaricatoio. Non di rado il dettagliante offriva le sue merci da una barca. Spesso a praticare il piccolo commercio era lo stesso capitano del veliero. Lo storico sidernese Mimmo Romeo, spulciando e compulsando atti notarili e documenti amministrativi nell'Archivio di Stato di Locri ha trovato ha trovato che nel 1868, nella rada di un paesino che non aveva diecimila abitanti, gettarono l'ancora 543 bastimenti, per una portata complessiva di 14.579 tonnellate e un movimento passeggeri di 895 persone; nove ogni 100 abitanti. Nel 1843, quando la popolazione insediata nella rada di Siderno aveva raggiunto appena le 6.483 unità, vennero imbarcati o sbarcati i seguenti prodotti: olio, legname di gelso, pelli, agrumi, fichi secchi (al tempo un alimento fondamentale per gli eserciti), legna di ulivo da ardere, canapa, scorza di faggio, ossa di bove, cacio, salame, vino, castagne, noci, seta grezza in matassa, carbon fossile, granatella. La marineria è stata la più grande eredità che Ferdinando II ci ha lasciato. Ancora nel 1920 i grossisti di Siderno importavano la farina via mare. Gli scambi locali, l'integrazione delle economie nascono così.

Oggi si ha un'idea sbagliata dell'Africa settentrionale. Si tratta invece di componenti essenziali della civiltà come oggi viene definita. Prima della Grecia e di Roma c'erano l'Egitto e i paesi delle sponde orientali del Mediterraneo. In età greca la Cirenaica fu la sponda navale per i commerci tra città greche e città magnogreche. In età romana, l'attuale Tunisia fu la provincia più ricca e colta dell'Impero; un primato che si prolungò all'età bizantina. L'Africa non è oggi così lontana come ai tempi di Mussolini. La decolonizzazione ha cambiato tutto. Costruiamo la flotta, come fece Ferdinando II, può farlo per esempio un consorzio fra le regioni meridionali. Sarà un mondo antico e nuovo. I traffici e lo sviluppo verranno.

martedì 19 maggio 2009

INDIPENDENZA CAPRESE


“…provo nostalgia per il piccolo mondo antico che si va spopolando … per far posto ad una industria ..” 
Con queste parole pronunciate in un discorso funebre Edwin Cerio Sindaco di Capri nel 1922 salutò il Manfredi Pagano, ed io le rispolvero per salutare una realtà che i giochi politici stanno ammazzando.
L’accanimento verso una persona, titolare di una grande azienda caprese, sta distruggendo quella sensazione di indipendenza che l’isola poteva fino ad ora vantare, se non quella politica ed economica, almeno quella elettrica.
C’è gente sull’isola che si sta battendo per la realizzazione di un elettrodotto tipo xtle, per collegare l’isola di Capri alla rete elettrica nazionale, e forse sono le stesse persone che gioivano quando il 28 settembre 2003 non si accorsero del blackout che colpì l’intera nazione, perché Capri grazie alla sua centrale termoelettrica potè vantare della sua autonomia.
La centrale elettrica è di proprietà S.I.P.P.I.C. ( Società per le imprese pubbliche e private per l’isola di Capri).
La SIPPIC, creata per volontà di alcune persone filonittiane nel 1905, per creare “l’impianto e l’esercizio di imprese elettriche e di qualunque altra impresa pubblica o privata, che potesse giovare allo sviluppo dell’isola di Capri”, la sede legale inizialmente era a Milano, come tutti i soci e fu creata proprio per volontà dei milanesi che avevano acquistato tramite la Società immobiliare alberghi, alcune strutture ricettive (quisisana ed albergo pagano) ed avevano bisogno di tanta energia elettrica per dare un servizio eccellente all’allora crescente turismo, e soprattutto per alimentare la nuova FUNICOLARE (stesso proprietario).
La SIPPIC è sopravvissuta alla nazionalizzazione delle imprese produttrici di energia elettrica del 1962, (che portò alla scomparsa tra l’altro dell’unica azienda produttrice di energia elettrica del mezzogiorno la SME).
Intanto è passata nelle mani di un proprietario del SUD Italia diventando a tutti gli effetti una società caprese a servizio dei capresi.
Ma questa è storia.
Ora che i capresi godono di una indipendenza elettrica(se non si considera l’acquisto del carburante) vogliono REGALARE i loro soldi nuovamente ai milanesi.
I cavi dell’elettrodotto a realizzarsi, saranno prodotti dalla Pirelli Cavi, per esempio, e sarà di proprietà Terna, e porterà energia elettrica prodotta dall’Enel. A queste società andranno i soldi dei capresi, che vedranno probabilmente anche deturpare anche la spiaggia retrostante il porto commerciale (uno dei probabili punti d’arrivo del cavidotto), ed è da coraggiosi o incoscienti sottoscrivere un progetto del genere, ora che l’italia sta diventando un paese economicamente federalista, significa privare i capresi di soldi provenienti da una attività locale, per finanziare, in virtù della legge federale, le casse delle regioni settentrionali che godranno, se pur di una piccola somma, di tasse provenienti dalla fatturazione dell’energia elettrica e dei sottoservizi installati sull’isola di Capri.
Naturalmente non è tutto oro quello che luccica, l’attuale centrale di produzione di energia elettrica sita nel bel mezzo dello skyline portuale caprese, reca un danno enorme alla vista dei turisti ed ai polmoni dei residenti, che sono costretti a respirare i fumi prodotti dalla combustione della centrale, ma la centrale è stata costruita ad inizio del secolo scorso da milanesi, quindi da persone che badavano al risultato immediato a discapito del gusto e di una visione futura di un paese.
Quindi se ci sono soldi da poter investire, è più ragionevole dirottarli sulla delocalizzazione e riconversione di una struttura che garantisca l’indipendenza dalle società settentrionali di produzione di energia elettrica, non lasciamo che la finanza milanese invada per la seconda volta l’isola di capri.
È incredibile poi che la lotta nei confronti della SIPPIC trovi come promotore uno che fino a qualche anno fa voleva trasformare l’isola in un Principato. Ma questi sono giochi politici non hanno un filo logico!
Nello Esposito