Ricevo e pubblico da Zitara
La popolazione irlandese, che forse è l'unica ad aver tratto reali vantaggi economici dalla partecipazione alla comunità daziaria europea, ha bocciato il trattato di Lisbona, tendente a consegnare anche formalmente in mano al padronato tedesco, francese e inglese il governo dell'intero continente. Non è il primo no della gente, saltuariamente e disorganicamente interpellata dai padroni europei. C'è già stato il no dei francesi al referendum sulla costituzione, altrove votata alla chetichella dai parlamenti gropponi. Da quel che si sente, a partire dai salotti del Quirinale, dopo il voto irlandese la casta politica groppone preferirebbe andare avanti solo attraverso altri plebisciti parlamentari. Il grande padronato e la casta non si amano. Ma l'amicizia del personale politico è indispensabile ai padroni perché sublima retoricamente gli interessi dei "poteri forti" presso la base popolare, mentre alla casta politica i padroni servono in quanto dispongono del danaro indispensabile per la sua pubblicità.
Il voto irlandese non è un segnale felice per le lobbies del capitale oligopolistico e della grande finanza e neppure per i mediatori politici e confezionatori di regole. E tuttavia si configura come una confusa risposta popolare al malgoverno europeo. E' ben difficile che gli stessi irlandesi o di una qualunque popolazione possano trarne un vantaggio. Meno che mai gli interessi del paese meridionale. Come sempre, d'altra parte. Perché tra i sudditi meridionali e la sovranità padronale europea il rapporto non è diretto. La casta politica meridionale non è finanziata e corrotta direttamente dal padronato, per il semplice fatto che il padronato meridionale arriva, sì e no, a corrompere il giornalismo di provincia. Essa è subalterna alla casta politica toscopadana, a cui vanno in prima istanza i vantaggi dell'alleanza con i padroni padani ed eurovalutari, e da cui riceve i sussidi occorrenti a svolgere il mandato storico di mantenere il Sud in condizione di disgregazione economica e sociale.
La disoccupazione endemica e la corruzione del personale politico stanno alla base dell'appartenenza dei sudditi meridionali allo Stato cosiddetto nazionale. Da quando il cosiddetto brigantaggio contadino venne sconfitto (più che dalle truppe sabaude, dalla borghesia agraria e redditiera e dalle classi a lei aggiogate), fra le popolazioni meridionali è progressivamente scomparsa qualsiasi capacità di reagire ai soprusi, allo sfruttamento, all'usura del capitale toscopadano. Napoli e la monnezza sono un momento eclatante di questa resa, ma la crisi civica della monnezza è la regola, non l'eccezione. Buffoni di ogni genere, sostenuti dal piedistallo del potere romano, si sono comportati e si comportano come delle divinità immortali e decidono della vita di tutti. Un tale sussiego neanche ai re fu perdonato, ma oggi è la sostanza della vita sociale. La gente vota e applaude, non ha altra speranza che la buona grazia del barone in carica.
La rinnovata responsabilità dello smarrimento tra le masse popolari del Sud va imputato ai partiti storici della sinistra italiana, socialisti e comunisti, e al sindacato da essi ispirato. Sin dalla sua iniziale affermazione, negli anni che precedettero la Prima Guerra Mondale, la sinistra operaia e operaista toscopadana (il socialismo municipale) accettò il modello di Stato che il capitalismo del Triangolo industriale (Genova -Torino - Milano) aveva perfezionato. Al quel tempo, questo modello assegnava alle masse meridionali la funzione di fornire, con l'espatrio, le rimesse in dollari necessarie a finanziare l'acquisto (all'estero) di macchine e impianti. Chi conosce un po' di storia patria sa che al congresso socialista del 1911 l'intellettuale pugliese Gaetano Salvemini criticò aspramente tale indirizzo. Ma non ottenne altro che l'isolamento personale. Trentacinque anni dopo, con la repubblica, la linea opportunistica di Turati fu sostanzialmente ripresa da Nenni e Togliatti. Anche in questa fase l'emigrazione meridionale fece parte del sistema dettato dai signori del Triangolo industriale. La sinistra toscopadanista dovette, però, trovare una tattica diversa dal disinteresse verso il Sud denunciato da Salvemini (e quindici anni prima oggettivamente testimoniato dalla torbida acquiescenza alla repressione sabaudista dei Fasci siciliani). Il fatto nuovo si poneva dopo il crollo della dittatura del solo partito fascista e fu la riintroduzione del suffragio universale. Siccome in materia elettorale un affamato e un sazio hanno lo stesso peso, si usarono le idee rivoluzionarie di Gramsci, che conferivano una qualche nobiltà alle masse contadine, Queste idee vennero rimodellate all'uso partitocratico e riformista. L'operazione mistificatoria venne realizzata spingendo su DUE LEVE. Prima: si operò sull'immaginario popolare e sull'ignoranza delle masse. La riforma agraria fu esaltata come l'evento demiurgico della rinascita meridionale. Attuata soltanto in parte, essa spinse altra gente fuori dai campi. All'enorme disoccupazione lasciata in eredità dal Duce immercescibile ai sudici avrebbe provveduto Dio, o come francamente affermò De Gasperi si sarebbe risolta imparando una lingua ed emigrando. La sinistra impiegò non meno di dieci anni per VEDERE la disoccupazione. Il fatto, in verità, non stava dentro le sue geometrie. Cosicché, invece che dare una medicina al malato, ci si limitò a leggergli il foglietto delle prescrizioni. Il Sud avrebbe partecipato alla dinamica nazionale solo dopo l'AVVENTO del socialismo - opera, peraltro, riservata alle masse abitanti l'area compresa tra Firenze, Bologna, Milano, Torino e Genova. Esse avrebbero travolto il rag. Valletta (Fiat), vero re d'Italia, in uno con i baroni meridionali suoi alleati. La seconda LEVA operò nella selezione delle rappresentanze elettorali e politiche fra gli obbedienti alla linea nazionale del partito e gratificando i selezionati attraverso le indennità parlamentari e le prebende da emungere nella gestione degli enti locali.
Il servilismo degli onorevoli proletari ha prodotto il servilismo della gente. L'azione politica si sviluppa fra gli addetti ai lavori e sempre nel corridoio. Il corridoio è il mercato delle vacche, in cui la casta notabilare fa le porzioni del pane ancora a lievitare. La facciata è solo lo specchio del corridoio. Chiunque è legittimato ad agire politicamente, sempre che abbia il seguito di qualche voto c conosca la porta dalla quale si accede al corridoio.
Chi vuole agire politicamente bisogna che vada alla causa delle cause. Le popolazioni sudiche hanno un bisogno oggettivo d'estromettere dai confini del paese meridionale il grande capitale monopolistico, la speculazione finanziaria toscopadana e di abbattere la casta. Ce la farà o no?
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