lunedì 21 luglio 2008

RICEVO DA ZITARA

Il diluvio universale nella giustizia. Una provocazione ai giuristi

Usare il termine 'utenti', quando si parla della giustizia, è la stessa cosa che definire 'consumatori' le persone umane che, spendendo al supermercato il ricavato del proprio lavoro, lo scambiano con quello altrui. L’uso di un vocabolo come 'utente', nel caso della giustizia, non rappresenta una degenerazione linguistica, ma il crollo dei valori umani che da tre millenni stanno alla base del diritto. Il diritto si fonda sull’eguaglianza delle parti in causa di fronte al giudice 'naturale'. Naturale è la stessa cosa della collettività organizzata dalle leggi: lo Stato, l’ordinamento giuridico; ad Atene era la Polis, dove il diritto ebbe una prima evoluzione; a Roma era la Res Publica Romanorum.
Oggi, in Italia, si lamenta una grande sofferenza della giustizia, e non perché, secondo alcuni, Berlusconi pretende di sottrarsi ai giudici o perché, secondo altri, la politica si serve dei magistrati per disfarsi di un avversario ingombrante. La sofferenza neppure riguarda l’equità del processo, ma la durata. Sia il processo civile, sia quello penale, sia quello amministrativo, sia quello contabile arrivano alla sentenza definitiva dopo attese estenuanti.
Dei quattro settori della giurisdizione quello di maggior peso sociale è il civile. Mi soffermerò sulla pesantezza di questo.
Il diritto civile si chiama così non per contrapposizione a incivile, ma in quanto eredità della parola latina 'civis', cittadino. Civile, in questo caso, vuole dire 'privato', dei privati. In origine, a Roma il processo civile iniziava per l'azione di un civis romanus. Gli stranieri non avevano l'identico diritto. Solo nell'ultimo secolo della Repubblica venne istituito un pretore cosiddetto extraurbano che non giudicava secondo il diritto romano, ma in base alla generale concezione del giusto e dell'ingiusto, detto jus gentium, diritto universale o naturale, già noto alla filosofia greca. Ai tempi nostri, qualunque persona fisica, o una società o anche un ente pubblico può iniziare una causa civile contro un altro soggetto. A questa lite lo Stato 'presta' il giudice, il quale mette fine alla lite (al processo) emettendo una sentenza. Quel che il giudice sentenzia è un comando dello Stato. Se la parte perdente non ubbidisce spontaneamente, la parte vincente può chiedere l’aiuto dello Stato, in modo che la vittoria si concretizzi.
Guardando dall’angolo visuale della storia di lungo periodo (dei cambiamenti epocali) il nostro diritto civile (privato), come il diritto civile di tutto l’occidente, è sempre quello impostato nella Roma repubblicana attraverso gli editti dei pretori. Questo significa una cosa estremamente importante: i rapporti tra le persone sono motivati da scopi identici o simili a quelli che muovevano gli uomini di duemila anni fa. Rispetto all'Età Classica ciò che è fortemente cambiato è il numero delle cause. E non perché la gente sia divenuta più litigiosa, ma per due diversi motivi. Primo, in Occidente, e non solo qui, la vita non si svolge più intorno alla produzione familiare del contadino, il quale aveva di fronte a sé la natura, Dio, la fame. Oggi si vive di scambi. Il pane si va a comprare. Cosicché ogni persona, al massimo ogni famiglia, è un’azienda che dà e riceve dagli altri. Secondo motivo: il numero dei beni che ciascuno consuma (usa) è infinitamente maggiore che in passato. Entrate nella toilette di una abitazione appena agiata e mettevi a contare le cose (i beni) che vi si trovano. Ciò fatto, chiudete gli occhi, entrate con la memoria nel cesso dei vostri nonni, contate le cose che ci sono e fate la sottrazione. La differenza può essere riportata in termini di rapporti giuridici, tutti quelli necessari per disporre di quei beni e per rinnovarli all’occorrenza. Se mia nonna, nel 1880, si lavava i capelli, non credo che potesse farlo altrimenti che con l’acqua e il sapone. La differenza con me è costituita dallo shampo, dal rubinetto, dalla doccia, dall’acqua calda, dall’Italgas, dal tappetino per non bagnare il pavimento, dal phon, da unguenti e pomate varie e da un’infinità di alte cose. Mia nonna non avrebbe potuto iniziare alcuna causa. L’acqua era del pozzo di casa e il sapone era stato fabbricato da lei stessa. Chi oggi si lava i capelli potrebbe avere motivo di chiamare in giudizio sei o sette fornitori. Non lo fa perché la prova del danno per una persona qualunque sarebbe oltremodo costosa, economicamente impossibile nel caso di perizie chimiche o ingegneristiche che costano milioni di euro. Non solo i rapporti di diritto pubblico ci costringerebbero ad assumere un avvocato e un commercialista ad personam, anche i rapporti di diritto privato ci vedono impotenti. La cosa è socialmente avvertita. Soltanto dove intervengono le associazioni dei cosiddetti consumatori o quelle volte che interviene “Mi manda Rai 3” il civis qualunque ottiene qualche ristoro. Ma sono gocce d'acqua in un mare. Nonostante la teorica possibilità di questi interventi a carattere collettivo, il cittadino è debole. Ma è debole anche perché le cause sono divenute lunghe e costose. Il loro numero aumenta e i fascicoli si ammonticchiano negli stipi delle cancellerie. Uno, due, tre, quattro milioni, non si sa più quante sono. L’incredibile durata di un giudizio civile comporta una dipendenza e sofferenza personale parecchio pesante. Col passare del tempo lo stesso motivo del contendere si sfoca, perde la sua rilevanza propriamente giuridica per assumere quella di un puntiglio, di una vendetta. Di questo passo, le basi stesse dello stato (l'ordinamento giuridico), già incrinate per l'uso spudorato che si fa del danaro pubblico da parte dei politici, dei pubblici impiegati e degli erogatori privati di pubblici servizi, salteranno in aria. La società civile lascerà il posto alla barbarie.
E’ opinione diffusa che il processo civile va riformato. Secondo chi scrive il grosso difetto del nostro processo civile sta nella sistema della prova. La parte è tenuta a fornirla. Ora, a prescindere dal caso di scontro giudiziario tra un cittadino medio e una potente impresa (per es. una società di assicurazioni), nel nostro processo la costruzione della prova è macchinosa e molte volte oggettivamente poco convincente, anche se formalmente esaustiva. Mi viene spesso da pensare che al tempo di Cesare, Roma aveva sei o settecentomila abitanti e soltanto quattro pretori urbani. Per altro le magistrature romane erano tutte elettive. I pretori non erano giuristi ma persone provenienti dalla politica, che duravano in carica al massimo un anno. Eppure questi signori hanno edificato il diritto civile che tuttora si studia nelle università. Come è accaduto questo? Quando un pretore riceveva la richiesta di iniziare una lite ne ricostruiva la 'causa' non solo sulla base delle prove portate dalle parti, ma anche su quelle che otteneva da altre fonti. Ciò fatto, con l'aiuto di un giureconsulto del suo staff definiva la norma, la regola da stabilire o ristabilire nel rapporto tra le parti in causa e pronunciava la sentenza.
Oggi il sistema della prova civile non solo non regge più rispetto al principio dell'eguaglianza dei cittadini ma rallenta anche e incredibilmente il processo. Un equilibrato intervento del giudice nella formazione della prova, come vediamo nei film americani, credo sia inevitabile. L'istituto della perizia d'ufficio non copre le problematiche attuali.
Il tema è elevatissimo e va al di là della mia "scienza" e della mia esperienza. Ci sono nell’ambito del nostro territorio giuristi di alto valore, sia tra i magistrati che tra gli avvocati. Mi piacerebbe che qualcuno di loro intervenisse su questo argomento, tanto più che la crisi della giustizia di cui si parla tanto è essenzialmente meridionale.



Caro Collega,
mi permetto di segnalarti il comunicato diffuso dall'Associazione che ho l'onore di presiedere. Cordialmente, Nicola Zitara
ASSOCIAZIONE CULTURALE 'DUE SICILIE'
Gioiosa Jonica
ll calvario di Fenestrelle
Comunicato stampa
A distanza di 148 anni dagli eventi, finalmente l'amministrazione del Comune di Fenestrelle ha accolto civilmente e con senso di responsabilità che fosse posta sul muro della fortezza una lapide commemorativa degli ottomila prigionieri napolitani periti fra quelle mura. Dice la lapide:
TRA IL 1860 E IL 1861 VENNERO SEGREGATI NELLA FORTEZZA DI FENESTRELLE MIGLIAIA DI SOLDATI DELLE DUE SICILIE CHE SI ERANO RIFIUTATI DI RINNEGARE IL RE E L'ANTICA PATRIA. POCHI TORNARONO A CASA. I PIU' MORIRONO DI STENTI. I POCHI CHE SANNO S'INCHINANO.
Si trattava di prigionieri di guerra, essenzialmente di soldati semplici che in ritirata, dopo la battaglia del Volturno, non avevano potuto trovare rifugio, a causa del numero, nella fortezza di Gaeta, in cui Francesco II aveva cadere non certo per salvare la patria, impresa ormai impossibile, ma l'onore. Ma vi erano anche sbandati calabresi, pugliesi, abruzzesi, molisani, campani appartenenti alla divisioni di linea i cui generali avevano complottato con i piemontesi o erano passati a Garibaldi, nonché renitenti alla leva che Cavour aveva ordinato appena occupato il Regno napolitano nella speranza di spegnere la resistenza contadina già in atto. Trattati come animali, ammassati nei bastimenti, tenuti senza cibo e acqua per giorni, i duosiciliani, colpevoli soltanto di essere rimasti fedeli al loro Re, vennero sbattuti in terre sconosciute, fredde, in campi di concentramento inospitali e, soprattutto, lontano dalla loro terra e dalla loro famiglia. Molti non riuscivano a sopportare la disperazione e mettevano fine ai loro giorni gettandosi in mare, come viene attestato in un articolo del giornale L'Armonia edito a Genova. Tanti, anzi, quasi tutti quelli che non morirono nel lungo tragitto a piedi dal Sud fino alle Alpi o per mare fino a Genova preferirono affrontare il duro e disumano regime carcerario, gli stenti, le umiliazioni, i maltrattamenti, i morsi della fame e della sete, le malattie e, persino, la morte, pur di non chinare la testa di fronte a quelli che consideravano solo crudeli usurpatori. I principali campi di concentramento istituiti dal nuovo Regno d'Italia furono, oltre a Fenesrelle (in Val Chisone, fra le Alpi), San Maurizio Canavese, Alessandria, Milano, Bergamo, le Isole Pontine, l'Elba, le piccole isole del Mar di Sardegna, dove vennero internati più di 12.000 tra ufficiali e veterani che avevano rifiutato di continuare il servizio militare nell'esercito italiano. Festrelle costituisce ancora un sistema difensivo composto da parecchie fortezze poste fra le Alpi. In una di queste i prigionieri organizzarono una rivolta progettando persino d'occupare Torino. Furono scoperti. La repressione fu durissima. Degli 8000 concentrati in questo lager pochi tornarono a casa. I più morirono di fame, di freddo, di malattie non curate. Furono sepolti in fosse comuni e non si fece memoria dei loro nomi.
Gioiosa Jonica, 17 luglio 2008

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